Esplorazione

Olivia osservava i bovindi in legno con le finestre a vetri esagonali, il lampione in ferro nero che sporgeva all’angolo della casa, il meraviglioso palazzo cinquecentesco all’inizio della via del Suffragio con le sue eleganti finestre ad arco. La prima volta che era arrivata a Trento con la madre, per iscriversi all’università, avevano parcheggiato proprio li dietro, e si erano fermate a bere un caffè nello stesso bar in cui si trovavano ora.

Come spesso era accaduto negli anni trascorsi in questa città, era rapita dal blu carico del cielo e dalla luce intensa che creava giochi di ombre sulle facciate delle case, appiattendo le forme in maniera netta.

Sentiva la voce di Cecilia – sua madre – che elencava per l’ennesima volta le ultime cose da fare prima di andarsene: prendere gli ultimi libri dalla libreria e verificare che ci fossero tutti i documenti dell’università, controllare di non aver scordato nulla negli armadi, chiedere a Marcos e Didi se avessero visto la giacca nera usata il giorno della laurea “che potrebbe tornare comoda per i colloqui che affronterai”, chiamare papà per dirgli che si avvicinasse con la macchina… L’elenco pareva interminabile.

Olivia osservava la madre, chiedendosi se stesse davvero parlando con lei, o le piacesse semplicemente ascoltare il suono della propria voce mentre osservava compiaciuta, senza staccare un momento gli occhi, la propria immagine riflessa nella vetrina che aveva davanti.

Cecilia era sempre molto attratta dalla propria immagine. Era in effetti una bellissima donna: si avvicinava ai cinquant’anni e aveva la pelle liscia ancora tonica. I capelli rossi a caschetto le contornavano il volto allungato, e un lieve residuo di abbronzatura metteva in risalto i suoi occhi verdi con pagliuzze color bronzo.

Olivia, lasciandola parlare, spostò lo sguardo sulla tazzina di caffè che aveva sul tavolo e la fece ruotare per osservare i disegni dei profili di un uomo e una donna che si guardavano ai due lati del manico.

Pensava che fino a qualche tempo prima avrebbe trovato l’atteggiamento della madre troppo narcisista ed egocentrico, ed avrebbe spinto la conversazione fino ad un aspro e lungo litigio, arrivando a sottolineare l’insensibilità di Cecilia rispetto ai suoi sentimenti: lei stava lasciando la città e gli amici che avevano accompagnato i suoi ultimi cinque anni di vita (e in effetti un forte senso di nostalgia già le premeva sul cuore)!

Ma nell’ultimo anno il loro rapporto era molto migliorato: Olivia era maturata ed aveva imparato a smussare la sua indole ipercritica, diventando un po’ più indulgente rispetto a certi atteggiamenti della madre.

La fissò con una certa dolcezza e guardò verso l’ingresso del locale, dove vide un ragazzo con una fitta barba castana molto curata e i capelli dello stesso colore, tano mossi da sembrare pennellate da Van Gogh. Stava evidentemente cercando qualcuno con gli occhi, e lei gli si avvicinò: “Sei Giuseppe?” chiese. Lui sorrise e annuì.

Si era chiesto, quando aveva ricevuto la mail in cui lei gli dava appuntamento in quel bar, che tipa potesse essere una ragazza dal nome così curioso: un’Olivia Tomassoni Compagnucci doveva per forza essere una ragazza poco comune.

E infatti Olivia, pur non essendo di una bellezza perfetta, si faceva decisamente notare. Aveva un viso molto magro, appuntito, un naso moderatamente aquilino, e labbra carnose dipinte di un rosso acceso. Due lunghe trecce di capelli color castano ramato le cadevano sulle spalle. Indossava un cappottino oversize in lana a scacchi grigi e neri che le arrivava appena sopra il ginocchio, una gonna nera di pelle e un paio di anfibi alti.

Si accomodarono al tavolino con Cecilia, che prese subito la parola e iniziò a spiegare quali mobili e oggetti Olivia avrebbe lasciato nell’appartamento in cui lui sarebbe subentrato la settimana seguente, e quanto chiedevano in totale, e perché la richiesta fosse “assolutamente onesta, vista la qualità delle cose che non riusciamo purtroppo a portare via, perché non sapremmo proprio dove metterle”.

Olivia assistette pazientemente alla contrattazione, chiedendosi quando sua madre l’avrebbe ritenuta in grado di gestire in autonomia la sua vita. E la immaginò, fra il divertito e l’innervosito, mentre prendeva la parola al suo posto durante i colloqui di lavoro che avrebbe dovuto affrontare nei mesi seguenti.

“Allora siamo d’accordo!” - disse infine Cecilia con un’espressione soddisfatta, stringendo la mano a un Giuseppe frastornato dalla capacità di negoziazione della donna – “Vero, amore?” chiese, rivolgendosi alla figlia.

Olivia non aveva ascoltato la trattativa. Stava guardando assorta la sua bicicletta attaccata al palo fuori dal bar. Era una bici da città; l’aveva comprata già molto usata per 50 Euro il suo primo anno a Trento. Per quanto fosse vecchia e - come diceva Didi - pesasse come un cancello, e nonostante tutti la prendessero in giro per quell’inconfondibile scricchiolio ritmico che produceva ogni pedalata, lei ci era affezionata: non l’aveva mai lasciata a piedi. Osservava il telaio nero, gli adesivi mezzi scollati e mezzi strappati, i graffi e le ammaccature: molti di quei segni avevano una storia da raccontare.

Quando la madre si rivolse a lei, si risvegliò dai suoi pensieri.

“Certo, mamma” – disse - e, rivolgendosi con un sorriso complice a Giuseppe, aggiunse “e mi farebbe piacere regalarti la mia bicicletta”.

Era giunto il momento di dare a Cecilia un segnale, per quanto piccolo. E iniziare a decidere da sola.